Notizie

02 dicembre 2019

Condividi:

La filiera del latte è una illustre sconosciuta, ma fa fare scoop televisivi “sine materia”

Categoria: Dalla Segreteria Nazionale, Sicurezza alimentare

La filiera del latte è una illustre sconosciuta, ma fa fare scoop televisivi “sine materia”

Report, nella puntata del 25 novembre 2019 su Rai 3, ha trasmesso un’inchiesta sull’attività dei caseifici italiani che producono formaggi impiegando in parte o in toto latte “straniero”, ma comunque di provenienza UE.

Report generalmente fa approfondimenti più accurati, in questo caso ha messo in discussione la correttezza della filiera del latte e dei formaggi, adombrando frodi e additando responsabili, tra questi anche il sistema delle Autorità compe-tenti in sicurezza alimentare che, per chi non lo sapesse sono il Ministero della salute a monte, ma anche le Ammini-strazioni regionali e le Aziende sanitarie del Servizio sanitario nazionale che da queste dipendono.

L’assunto da cui si parte per indurre gli spettatori a dubitare dei sistemi di controllo e certificazione è questo: impor-tiamo milioni di tonnellate di latte da altri paesi dell’Unione con il quale si fanno latticini e formaggi “Made in Italy” e co-sì si inganna il consumatore sulla natura dei prodotti.

La narrazione della vicenda che esce dal montaggio di Report sembra avere come obiettivo la difesa dei consumatori, in realtà li sta solo informando con poca attenzione alle regole vigenti, inducendo in loro un ingiustificato sentimento di sfiducia verso le istituzioni.

Orbene, seppure sia pacifico che un servizio di una trasmissione di giornalismo investigativo e “di denuncia” necessiti del pathos indispensabile affinché gli spettatori seguano la vicenda narrata con un minimo di interesse, la correttezza delle informazioni deve sempre essere mantenuta.

Invece – secondo un copione che prima o poi ci porterà al colpevole o, se il colpevole non si riesce a sceneggiarlo, ci lascerà comunque a un sentimento generale di sfiducia verso ciò che è pubblica amministrazione (colpevole generica sempre disponibile) – in questo caso addirittura si adombra che i Servizi Veterinari della Sanità Pubblica lascino scorrere latte anonimo nelle nostre filiere.

Il servizio ha cercato di dimostrare una “frode commerciale” che certamente importa ai consumatori in genere, ma in questo caso, trattandosi di alimenti, il principio di “frode commerciale” straripa intuitivamente in una potenziale “frode sanitaria” che sottende un rischio per la salute dei consumatori.

Il consumatore è quindi autorizzato a pensare: “ma come, se le istituzioni non sanno che latte finisce nei formaggi, quale può essere la sicurezza alimentare dei latticini e dei formaggi che mangiamo noi e i nostri figli?”

La storia così rappresentata porta fuori dal terreno della realtà e porta in quello delle fake news, molto di moda e molto “bevute”.

Infatti sull’etichetta dei formaggi è obbligatorio indicare l’origine del latte: Latte UE o Latte Extra UE con piena garanzia dei diritti dei consumatori.

Solo i formaggi e i latticini che hanno un disciplinare specifico o un DOP devono essere preparati con latte proveniente da allevamenti nazionali identificati; gli altri prodotti della filiera del latte possono essere ottenuti con latte di qualsiasi Paese che possieda equivalenti requisiti di sicurezza e salubrità.

L’Italia è sostanzialmente un paese dotato di abilità eccellenti nel campo della trasformazione di materie prime alimen-tari. Ma molte di queste (grano, olio, prosciutti, latte di bufala, latte ovino e caprino, miele, etc.) come appunto il latte non bastano a soddisfare le esigenze delle nostre imprese alimentari che, anche grazie a quelle materie prime di altri paesi offrono ai consumatori (nazionali e internazionali) prodotti di inconfutabile qualità, generando una importante quota di Export.

Facendo in particolare riferimento al latte contenuto nelle autobotti “che passano dal Brennero” (detto così potrebbe sembrare che passino di straforo attraverso un varco doganale chiuso quando l’UE è un’area di scambio aperta), qual-cuno dovrebbe sapere che i Servizi Veterinari del Ministero della salute, delle ASL e degli Istituti Zooprofilattici Speri-mentali provvedono comunque a verificarne le caratteristiche certificate, sia sul piano della qualità sia – soprattutto – sul piano della salubrità.

Esattamente come si fa sul latte italiano col quale sarà poi eventualmente miscelato nei processi di trasformazione.

Per difendere le produzioni alimentari italiane senza ingenerare confusione, è forse arrivato il momento di affrontare il tema della differenza tra “Made in Italy” e “Born in Italy”. Nel primo caso materie prime di origini diverse (controllate e salubri) entrano nella filiera della trasformazione e ci offrono prodotti di alta qualità che possono esser legittimamente classificati “Made in Italy”.
Il fenomeno ha qualche analogia con ciò che è avvenuto nel settore tessile a seguito della delocalizzazione avvenuta negli anni 80/90. Molte industrie manifatturiere tessili italiane, oltre a cercare le materie tessili sui mercati internazio-nali dove si potesse ottenere il miglior equilibrio prezzo/qualità, hanno anche cominciato a predisporre i loro capi lavo-rati in paesi con mano d’opera a basso costo, chiudendo le fabbriche italiane ed esportando oltre frontiera i macchinari per lasciare a più elementari laboratori italiani il solo compito della selezione e del perfezionamento finale, ma consen-tendo così di apporre sui capi di moda le etichette “Made in Italy”.

Per le filiere alimentari sarà sempre più probabile che le materie prime arrivino da oltre confine (UE o Extra UE), anche perché la nostra agricoltura e zootecnia sono poco competitive rispetto alla sfida sui prezzi, mentre hanno le carte in regola per eccellere nella sfida della qualità e della tesaurizzazione del valore simbolico della georeferenziazione socio-logica e culturale. Per questo occorre distinguere tra “Made in Italy” e “Born in Italy”.

Gli alimenti “Born in Italy”, quindi non solo i formaggi, possono essere caratterizzati da disciplinari e da regolamenti stringenti.

Le formule non mancano e i criteri sono già stati collaudati in molte produzioni.

Forse se in talune filiere stentano a decollare ci può essere di mezzo una qualche abitudine al nero, cioè a quel po’ di evasione fiscale che, possiamo dire con un po’ di amara ironia, “fa sentire meglio”.

Ma i disciplinari che identificano i prodotti alimentari possono essere la chance del momento per le nostre “filiere fra-gili”. Possono prevedere l’esclusione di qualunque ingrediente o componente di lavorazione che non sia legittimata a definirsi italiana o tradizionale.

Questo modo di produrre alimenti potrà ritagliare una nicchia di mercato sempre più articolata nel territorio nazionale, utile a riportare in auge produzioni di forte valore etnologico e indentitario dei popoli che hanno composto l’Italia pri-ma che essa diventasse uno Stato.

Le ipotesi di sovranismo alimentare sono ormai fuori tempo massimo dai tempi dell’autarchia, ed esulano dalla sicurezza alimentare e dalla tutela dei consumatori.

Aldo Grasselli
Segretario Nazionale del Sindacato Italiano Veterinari di Medicina Pubblica

Scarica gli allegati